Questi vasti cameroni di pelliccia che mi avvolgono nell'afa, mi sostengono come salvagenti, mentre secchi di sudore mi irrorano subdolamente e il fiato si accartoccia nelle budella per sfornarsi nei tropici.
La sciabola carpiò un subitaneo lampo di luna nello spicchio di stella avvitata. Era solo l'unghia troncata del pollice sinistro che biancheggiava lattiginosa come una lacuna.
Quando finisce l'amore platonico, allora, atterro sulla realtà disilluso, senilmente e gelidamente alieno come sul serbatoio fungiforme di un acquedotto.
La mummia, dalla testa nera a tamburo rincagna il suo urlo nella secca bocca da piragna. Se ne sta zitta e non si lagna di essersi scompigliata nella polvere. Sembra sul punto di squittire all'improvviso, ma si mantiene rannicchiata a cullare il suo friabile dolore.
L'ordito che si sfibrò in fili frusti non potrà più respingere la torma dell'inconscio che smatassa soltanto l'orrorre dell'ignoto. Spire su spire non tangono il perpetuo spostamento, ma lo simulano percettivamente nell'illusione dilatata.