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 Dilaniandosi, l'uragano s'incarognisce in una rabbiosa consuzione alla quale si avvicenda un'esterrefatta quiete da astinenza cinetica. Una caligine d'erebo sfrigola sullo specchio liquefatto che insegue i densi veli cocenti ed abbaglianti di Fata Morgana prima che sia fatua apparizione di calore.
  Questi vasti cameroni di pelliccia che mi avvolgono nell'afa, mi sostengono come salvagenti, mentre secchi di sudore mi irrorano subdolamente e il fiato si accartoccia nelle budella per sfornarsi nei tropici.
 La sciabola carpiò un subitaneo lampo di luna nello spicchio di stella avvitata. Era solo l'unghia troncata del pollice sinistro che biancheggiava lattiginosa come una lacuna.
  La morte, assorta nelle iridi incrinate di invisibile, rinviene in vita da un'apnea di anni con un puzzo nauseabondo.
Potessi riavermi nel flusso del cogitare, ma sono sperso in una lastra di ghiaccio come nella voragine del tempo che fu.
  Quando finisce l'amore platonico, allora, atterro sulla realtà disilluso, senilmente e gelidamente alieno come sul serbatoio fungiforme di un acquedotto.
  La mummia, dalla testa nera a tamburo rincagna il suo urlo nella secca bocca da piragna. Se ne sta zitta e non si lagna di essersi scompigliata nella polvere. Sembra sul punto di squittire all'improvviso, ma si mantiene rannicchiata a cullare il suo friabile dolore.